Questo è un pezzo che scrissi e pubblicai il 4 Marzo 2012. Ritengo abbia ancora tanto da dire.
Universo
In un romanzo di Robert Anson Heinlein gli occupanti di una
astronave generazionale dimenticano, ad un certo punto, non solo lo
scopo del loro viaggio, ma scambiano anche lo spazio artificiale e
limitato in cui si trovano per l’intero universo. Una astronave
generazionale è una nave spaziale che viaggia nello spazio da un pianeta
d’origine verso le stelle, alla ricerca di un nuovo pianeta abitabile,
ed in cui, a causa delle immense distanze interstellari e degli enormi
tempi necessari per attraversare tali distanze, gli uomini si trovano a
vivere per generazioni e generazioni, per decine o centinaia di anni. In
tali condizioni basta un niente per far scoppiare una crisi, magari a
causa della fragilità psicologica di chi si ritrova su un pezzo di
metallo e sa che trascorrerà tutta la vita senza mai vedere la fine del
viaggio, sorte che potrebbe toccare forse ai suoi nipoti, o ai nipoti
dei nipoti. Heinlein immagina che a causa di una di queste crisi le
generazioni successive perdano coscienza del luogo e della condizione in
cui vivono, fino a convincersi che lo spazio in cui si trovano sia
l’universo, e non soltanto un vascello spaziale che vagabonda nel vuoto.
I personaggi di Universo ignorano che fuori esista qualcosa, ignorano
le proprie origini ed il proprio destino, finendo per regredire ad uno
stadio quasi animalesco in cui l’unica preoccupazione è la semplice
sopravvivenza. Universo, oltre ad essere un romanzo estremamente
interessante ed una pietra miliare della fantascienza, è una efficace
metafora della condizione attuale dell’umanità. Frastornata dalla vita
quotidiana l’umanità è incastrata in un meccanismo che svuota di
significato la sua stessa esistenza, ed a nulla valgono i pallidi
palliativi offerti dai farmaci antidepressivi, che servono solo a
nascondere i sintomi, o la ricerca del senso nella religione. La verità,
nuda e cruda, è che non esiste un senso nel nascere, crescere, vivere e
infine morire nella svilente società dei consumi e della perversa
logica imperante dell’accumulo e dello sperpero. E non esiste un senso
nel dedicare quello che dovrebbe essere il tempo dell’uomo, quello in
cui l’uomo può tornare persona e non più macchina finalizzata al
salario, alla ricerca di svaghi a loro volta disumanizzanti perché,
semplicemente, si è incapaci di immaginare altro, o di interessarsi ad
altro. Non esiste un senso nel lavoro automatizzato sei giorni su sette
condito dal settimo giorno santificato al centro commerciale o alla
televisione. Non esiste un senso perché quello che viene identificato
come l’universo è semplicemente un modo di vivere temporaneo per
l’umanità, seppur forse eterno per l’individuo, in un luogo a sua volta
transitorio ed in condizioni instabili e altrettanto fragili.
La società occidentale in cui viviamo non è universale, nel tempo e
nello spazio. Neppure la metà del pianeta terra vive in questa società,
neppure un terzo degli abitanti del pianeta. La società occidentale è
transitoria, non è sempre esistita e non esisterà per sempre. L’era dei
consumi non è l’Universo, New York non è l’Universo, neppure Londra e
Parigi sono l’Universo. Terribilmente banale, scontato, eppure nessuno
di noi pensa realmente al fatto che il favoloso mondo del nuovo
millennio è sconosciuto ai due terzi degli abitati del nostro stesso
pianeta, nessuno di noi riflette veramente sul fatto che il proprio
modello di vita non è Universale, ma transitorio, relativo, fragile.
Nessuno di noi riflette veramente sul fatto che questo non è il migliore
dei mondi possibili, o quantomeno che questo non è l’unico degli
Universi possibili.
Si potrebbe obiettare che l’umanità non è mai stata diversa, che
neppure nel passato è sfuggita a questa logica, del resto l’uomo delle
caverne scambiava il suo ambiente per l’Universo, così come il contadino
o il Signorotto medievale. Eppure il paragone non è del tutto
convincente, poiché l’umanità del ventunesimo secolo ha a sua
disposizione gli strumenti per rendersi conto della propria condizione e
per comprendere la differenza fra il tutto e la parte. Semplicemente,
all’umanità del ventunesimo secolo, non importa. L’umanità, per
la prima volta nella sua storia dotata di occhiali capaci di spingere lo
sguardo lontano, abbassa lo sguardo ai suoi piedi e perde l’occasione
di scoprire ciò che la circonda. Trecento anni fa chiunque
avesse avuto la possibilità di godere di una istruzione prolungata per
8-10 anni avrebbe manifestato quantomeno un forte interesse per
l’Universo, per le Scienze, la Filosofia, per il “Tutto”. Oggi che
l’istruzione per almeno 8-10 anni è diventata la norma il massimo della
curiosità che l’uomo medio riesce a raggiungere è scoprire chi
presenterà il prossimo festival di Sanremo. Logico che si percepisca un
qualcosa di sbagliato, ovvio che si finisca per sentirsi soffocati da
una società con così tante potenzialità eppure così frivola ed
animalesca al tempo stesso.
Ma quale altro discorso è possibile se gli “integrati” hanno trovato il loro rifugio tra coloro ai quali, e sono i più, la televisione, lo stadio, la moda, lo shopping hanno fornito gli opportuni strumenti di rimozione e di ottundimento di sé? E chi si rifiuta di consegnarsi all’ottundimento, perché ancora dispone di una discreta consapevolezza di sé, a chi si rivolge quando incontra non questo o quel dolore, intorno a cui si affollano le psicoterapie, ma quell’essenza del dolore che è l’irreperibilità di un senso?
Qui le psicoterapie non servono perché non è “patologico” come si vorrebbe far credere, porsi domande, sottoporre a verifica le proprie idee, prendere in esame la propria visione del mondo per vedere quanto c’è di angusto, di ristretto, di fossilizzato, di rigido, di coatto, di inidoneo, per affrontare i cambiamenti della propria vita e i mutamenti così rapidi e imprevisti del mondo.
[I Miti del Nostro Tempo, Umberto Galimberti, pag. 154]
In queste condizioni la depressione non è patologica, così come non
può essere patologico aver paura in equilibrio su una fune tesa fra due
grattacieli. L’umanità non può aspettarsi di vivere bene chiusa in un
recinto, come pecore, a meno di estirpare e gettare via la sua stessa
“Umanità”. E la frivolezza della nostra nuova umanità si manifesta
continuamente, sia nella scelte scelte quotidiane, sia nel modo di porsi
nei confronti dei grandi temi come la Vita, l’Universo, e Tutto Quanto,
come direbbe Douglas Adams. Non c’è da stupirsi quindi se si finisce
per scambiare il contenuto per la confezione, così che nelle scuole si
dedica più tempo ad insegnare le figure retoriche che non a studiare il
contenuto di un opera. Quando nel 2010 fra le tracce della prova di
italiano agli esami di maturità i candidati si sono trovati di fronte un
saggio sul tema “Siamo Soli?” nessuno stupore di fronte alle grette e
rivelatrici reazioni del mondo accademico e della società in generale.
Di fronte ad una traccia d’esame che chiedeva allo studente di
affrontare il tema della vita fuori dal pianeta Terra la reazione
universale è stata di scherno:<< ma come?? adesso abbiamo gli ufo
alla maturità? Come siamo caduti in basso>>.
Si! Siamo caduti in basso, veramente in basso, se coloro i quali si ritengono uomini e donne di cultura considerano il tema della vita nell’Universo un tema ridicolo e frivolo è il momento di alzare bandiera bianca. Se coloro i quali, pur avendo teoricamente gli strumenti per alzare lo sguardo fuori dalla culla verso ciò che esiste là fuori, continuano ostinatamente a mirarsi i lacci delle proprie scarpe allora dimentichiamo pure ciò che vi è là fuori, chiudiamoci nella nostra casetta, ammiriamone i muri e cantiamo le lodi al pavimento ben lucidato. Di fronte ad uno dei temi più profondi che la Scienza e la Filosofia abbiano mai affrontato la reazione dell’uomo comune ed in buona parte anche di quello che oggi passa per uomo di cultura è di sdegno e di scherno, del resto la vita è fatta di priorità ed ognuno ha le proprie…
Si! Siamo caduti in basso, veramente in basso, se coloro i quali si ritengono uomini e donne di cultura considerano il tema della vita nell’Universo un tema ridicolo e frivolo è il momento di alzare bandiera bianca. Se coloro i quali, pur avendo teoricamente gli strumenti per alzare lo sguardo fuori dalla culla verso ciò che esiste là fuori, continuano ostinatamente a mirarsi i lacci delle proprie scarpe allora dimentichiamo pure ciò che vi è là fuori, chiudiamoci nella nostra casetta, ammiriamone i muri e cantiamo le lodi al pavimento ben lucidato. Di fronte ad uno dei temi più profondi che la Scienza e la Filosofia abbiano mai affrontato la reazione dell’uomo comune ed in buona parte anche di quello che oggi passa per uomo di cultura è di sdegno e di scherno, del resto la vita è fatta di priorità ed ognuno ha le proprie…
«“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.»
(vv. 112-120, Dante Alighieri)
L’Universo, com’è già stato notato in altre sedi, è un posto maledettamente grande, cosa che, per amore di un’esistenza quieta, la maggior parte della gente finge di non sapere.
Molti sarebbero anzi pronti a trasferirsi in luoghi ancora più piccoli di quelli che riescono a concepire con la mente, e di fatto non sono poche le creature che lo fanno.
In un angolo del Braccio Orientale della Galassia si trova il grande pianeta di foreste Oglaroon, la cui popolazione «intelligente» vive tutta quanta su un unico noce abbastanza piccolo e affollato. Su tale albero gli Oglarooniani nascono, crescono, fanno l’amore, scrivono intagliando la corteccia articoli filosofici riguardanti il significato della vita, l’inutilità della morte e l’importanza del controllo delle nascite, combattono alcune guerre di minima entità, e infine muoiono legati alla parte di sotto dei rami più esterni e inaccessibili. Gli unici Oglarooniani che lasciano il loro albero sono quelli che vengono sbattuti fuori per avere commesso il crimine nefando di chiedersi se qualche altro albero potesse ospitare la vita o se gli altri alberi fossero comunque qualcosa di diverso da semplici allucinazioni prodotte dall’avere mangiato troppe oglanoci.
Benché un simile comportamento possa sembrare strano, non c’è forma di vita nella Galassia che non si sia resa colpevole in qualche modo dello stesso errore, ed è proprio per questo motivo che il Vortice di Prospettiva Totale suscita un orrore indicibile.
Quando infatti si viene messi nel Vortice si ha per un attimo la visione globale di tutta l’infinita, inimmaginabile immensità della creazione, e in mezzo a questa immensità si ha modo di distinguere un segnale minimo, minuscolo, microscopico, che dice Tu sei qui.
(Ristorante al Termine dell’Universo – Douglas N. Adams)