lunedì 1 giugno 2015

L'eterno dilemma: dolce schiavitù o amara libertà



Nel mio ultimo intervento (vagando senza appigli tra Utopia e Distopia), in cui sostenevo l'equivalenza di Utopia e Distopia, concludevo con una serie di vignette che illustravano le differenze tra Orwell e Huxley.
Quest'ultimo in particolare è stato capace di cogliere, già negli anni trenta del secolo scorso, le tecniche di controllo delle masse che i regimi occidentali avrebbero utlizzato per limitare le libertà individuali o per canalizzarle verso gli scopi dei governanti. In questo, quindi, Huxley si caratterizza per la capacità di immaginare dei metodi dolci di sottomissione in netta contrapposizione con quelli immaginati da Orwell e da altri prima e dopo di lui (compreso  Zamjatin a cui Orwell si è chiaramente ispirato). Se è infatti abbastanza semplice pensare che i potenti impongano il loro volere con la forza, la violenza, la paura e il terrore, è meno intuitivo pensare che una sorta di violenza, di limitazione delle libertà individuali, si possa realizzare anche senza che la vittima ne sia consapevole e, anzi, addirittura facendo in modo che sia felice e soddisfatta della sua condizione.
Per realizzare questo Huxley immagina addirittura la possibilità di realizzare degli esseri umani geneticamente costruiti per essere felici della loro condizione, indottrinati in maniera impeccabile affinche vivano la loro vita all'interno della cultura vigente senza preoccuparsi di nulla al di fuori del lavoro e degli svaghi suggeriti dal governo. E se questo non bastasse allora c'è sempre la droga pronta ad offrire la felicità in pillole.
Vi suggerisce qualcosa? Le analogie con la moderna società occidentale sono impressionanti, ma Huxley si spinge ben oltre e non posso che consigliarvi di leggere il prima possibile il suo mirabile capolavoro pubblicato in Italia con il titolo "Il Mondo Nuovo" che contiene anche alcuni saggi, scritti pochi anni dopo dallo stesso Huxley, in cui l'autore riferendosi alla storia a lui contemporanea spiega come molte delle sue previsioni si sono già avverate.

C'è però una differenza tra la società descritta da Huxley e la nostra società contemporanea: noi non siamo (ancora?) progettati geneticamente, non siamo indottrinati in maniera sistematica e controllata, non siamo omogenei dal punto di vista culturare e conserviamo, almeno in potenza, una certa indipendenza e una notevole capacità di tirarci fuori dal controllo altrui.
Noi nasciamo in famiglie distinte, in contesti culturali a volte diversissimi da un quartiere a un altro, da una città all'altra e, nonostante l'omogenea cornice culturale che deriva dalla televisione e dai media meno tradizionali, vivere in contesti familiari e socio-culturali diversi fa una enorme differenza nel modo di vivere e di vedere il mondo di ogni individuo.
Noi abbiamo un sistema scolastico che, seppur ben lontano dalla perfezione, insegna a tutti i rudimenti della conoscenza. Ognuno di noi sa leggere, scrivere, far di conto e ha la possibilità di informarsi e farsi una cultura in maniera autonoma vivendo nel mondo, leggendo libri, comunicando con gli altri.
Abbiamo la possibilità di conoscere e imparare come mai nessun popolo nella storia umana ha potuto. Abbiamo biblioteche pubbliche gratuite per tutti e la capacità di usufruirne liberamente a un età in cui i nostri predecessori stavano nei campi a guadagnarsi il pane. Nonostante un mercato del lavoro che sembra tornare indietro di decenni abbiamo ancora più tempo libero di quello goduto dalla maggioranza degli uomini e delle donne fino a solo settanta anni fa. E abbiamo la possibilità di usarlo in modo ben diverso.
Insomma siamo ancora lontani dal controllo totale e perfetto di Huxley.
E allora qual'è il nostro problema?



Ma quale altro discorso è possibile se gli “integrati” hanno trovato il loro rifugio tra coloro ai quali, e sono i più, la televisione, lo stadio, la moda, lo shopping hanno fornito gli opportuni strumenti di rimozione e di ottundimento di sé? E chi si rifiuta di consegnarsi all’ottundimento, perché ancora dispone di una discreta consapevolezza di sé, a chi si rivolge quando incontra non questo o quel dolore, intorno a cui si affollano le psicoterapie, ma quell’essenza del dolore che è l’irreperibilità di un senso?
Qui le psicoterapie non servono perché non è “patologico” come si vorrebbe far credere, porsi domande, sottoporre a verifica le proprie idee, prendere in esame la propria visione del mondo per vedere quanto c’è di angusto, di ristretto, di fossilizzato, di rigido, di coatto, di inidoneo, per affrontare i cambiamenti della propria vita e i mutamenti così rapidi e imprevisti del mondo.
(I Miti del Nostro Tempo, Umberto Galimberti, pag. 154)

Forse il nostro problema è che non ci importa di essere liberi. Con la pancia piena, il divertimento e la felicità in pillole, della libertà di scegliere, pensare e indagare il mondo non frega a nessuno. O meglio... importa a ben pochi. Una piccola parte dell'umanità è inquieta, affamata, curiosa, più le si riempie la pancia e più ha voglia di girarsi intorno, alzare lo sguardo e andare a caccia delle verità ultime. Probabilmente nella storia umana non è mai stato differente: la maggioranza degli uomini ad accontentarsi di panem et circensem, mentre pochi pazzi ambiziosi tiravano la carretta del progresso umano. Non siamo mai stati tutti come l'Ulisse di Dante.
«“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza”.»
(vv. 112-120, Dante Alighieri)
Eppure generazioni di pensatori e attivisti politici hanno fondato teorie e speranze sull'idea che quello che serviva agli uomini per liberarsi dalle famose catene dell'oppressione e della povertà fosse l'istruzione. Era, dicevano, una questione di opportunità. L'ignorante non può ribellarsi perché è facilmente circuibile dal potente che conosce e che incute soggezione. Avevano ragione, ma non potevano immaginare che l'istruzione e le pari opprtunità non bastano. Senza ambizione, senza fame di conoscenza, senza voglia di capire e di scoprire l'uomo si accontenta di ciò che ha e non riesce a vedere ciò che lo circonda. O comunque non è interessato, certe cose non lo riguardano.
“L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa”. 
(Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917)
Diciamoci la verità: se così tante volte ci sembra di vivere in un mondo imperfetto siamo noi stessi ad averne una buona fetta di colpa. Siamo colpevoli quando, pur consapevoli di non sapere, ci crogioliamo nella nostra ignoranza disinteressandoci del mondo e di ciò che accade intorno a noi. Ha ragione Gramsci quando parla dell'indifferenza e del suo operare nella storia. 
Quando non vi importa nulla di scoprire perché qualcuno nel mondo è disposto a morire per uno scopo, quando di fronte alla Missione Rosetta non siete in grado di comprendere che non si tratta solo di una scampagnata su un pezzo di ghiaccio, quando non vi importa di scoprire le ragioni politiche dietro il Processo di Norimberga, quando ridete di qualcuno che si espone al pubblico scherno perché vive e pensa in modo diverso da voi, quando insomma vi chiudete nel vostro piccolo mondo senza porvi domande su come e perché vivete in quella piccola bolla di universo il vostro problema non è l'ignoranza, ma l'incapacità (e il disinteresse) di farvi le domande giuste.
La preghiera è così:
'Proteggimi dal sapere quel che non ho bisogno di sapere. Proteggimi anche dal sapere che bisognerebbe sapere cose che non so. Proteggimi dal sapere che ho deciso di non sapere le cose che ho deciso di non sapere. Amen'.
Ecco qua. In ogno caso, è la stessa preghiera che reciti in silenzio dentro di te, per cui tanto vale dirla apertamente. Douglas N. Adams . Praticamente Innocuo
Per chi manifesta interessi alieni alle masse che lo circondano tutto questo è una condanna. Si vive come in un mondo a parte, si cresce come lo scemo del villaggio, guardati con un misto di scherno e di perplessità perché non ci si adatta a vivere da robot in un contesto sociale che non ha posto per chi è affetto da una malattia chiamata pensiero.
«Cerca di pensare alla mia infanzia», cominciò, «come a un'educazione vuota, di ceto medio, in un appartamento di città. Sola e disperata, con poche amiche che mi sembravano cretine e allo stesso tempo ne sapevano più di me. E i miei genitori... creature che conoscevo, cui ero fin troppo legata, ma con cui non avevo dei  veri contatti. Sembravano tirare avanti in una routine giornaliera infelice e sterile come la morte. Tutto il mondo era un brutto mistero per me. Non sapevo cosa volesse la gente, perché si comportasse in un determinato modo, a quali regole segrete obbedisse. Facevo sempre delle lunghe passeggiate nel parco, da sola, cercando di scoprirle».
(Jane - Siamo tutti soli - Fritz Leiber)
Nel suo divertentissimo romanzo Guida Galattica per gli Autostoppisti Adams immagina, tra il serio e il faceto, che una razza di intelligentissimi alieni costruisca un computer potentissimo affinche esso possa finalmente trovare la risposta alla Domanda sulla Vita, l'Universo e Tutto Quanto. Dopo un incredibile lasso di tempo il computer da la sua risposta: quarantadue. Tra lo stupore generale il computer spiega che la risposta è corretta e se nessuno è in grado di capirla questo dipende solo ed esclusivamente dal fatto che nessuno ha ben chiara qual'è in effetti la domanda.
Tra una risata e l'altra Adams riflette sul fatto che indagare e conoscere, presupposti fondamentali per essere realmente liberi, non è un compito semplice e dipende dalla capacità di porsi le domande giuste.
La non conoscenza non da nessun diritto, né a credere né a non credere, né ad avere fiducia né a non averne, e nessuna libertà.(Umberto Veronesi).
Il più grande dono che lo studio offre all'uomo è la consapevolezza della sua ignoranza. Una volta studiato in ogni sua sfaccettatura un argomento quello che accade è che ci si accorge di quanto poco si conosce effettivamente, di quanto ancora c'è da scoprire e di quante altre domande si sono aperte alla mente curiosa e attenta.
Coloro i quali sono in gradi di porsi le domande giuste, coloro i quali hanno l'ardire di indagare i diversi, ma sempre interconnessi, campi dello scibile sono gli eletti. Sono quegli uomini, sono quelle donne, a cui noi ("uomini" moderni che tanto ci vantiamo della nostra civiltà) dobbiamo la nostra comodità e il nostro vivere civile. Eppure, tra una birra in frigo e una partita di calcetto, tra una messa in piega e c'è posta per te, non siamo così diversi da quelle scimmie che passano i pomeriggi oziosi a spulciarsi a vicenda dopo aver riempito la pancia con quello che l'albero offre loro.
«Mangiare, bere, morire: tre manifestazioni fondamentali della vita universale e impersonale. Gli animali vivono questa esistenza impersonale e universale senza conoscerne la natura. La gente comune ne conosce la natura, ma non la vive e, anche se vi pensa seriamente, si rifiuta di accettarla. Le persone illuminate la conoscono, la vivono e l'accettano completamente. Mangiano con una differenza, bevono con una differenza e muoiono con una differenza.»
(L'Isola. Aldous Huxley)
E allora forse la grande intuizione di Huxley non è tanto nell'aver immaginato la possibilità di creare a tavolino uomini che ameranno la loro schiavitù, quanto invece l'aver realizzato che non tutti gli uomini vogliono emulare Icaro e che non tutti gli uomini sono figli di Prometeo. Ai più insomma non importa nulla di essere schiavi, pecore nell'ovile, alla libertà  preferiscono una triste felicità. Come diceva Rousseau: l'uomo chiama pace una miseranda schiavitù.
Come un cavallo indomito
alla sola vista del morso rizza i crini, batte la terra con i piedi e
si dibatte furiosamente, mentre invece un cavallo domato sopporta
pazientemente la frusta e lo sperone,  così l’uomo barbaro non piega la
testa al gioco che l’uomo civile porta senza protestare, e preferisce
la libertà più tempestosa a una tranquilla soggezione. Non è dunque
dall’avvilimento dei popoli asserviti che bisogna giudicare delle
disposizione dell’uomo verso la servitù, ma dai prodigi che hanno fatto
tutti i popoli liberi per garantirsi dall’oppressione. So che i primi
vantano continuamente la pace e la quiete che vantano nelle loro
catene, e che miserrimam servitutem pacem appellant (chiamano
pace una miseranda schiavitù): ma quando vedo gli altri sacrificare i
piaceri, la quiete, la ricchezza, la potenza, la vita stessa per
conservare quel solo bene che è tanto disprezzato da coloro che l’hanno
perduto; quando vedo degli animali nati liberi che odiano la cattività
e che si rompono la testa contro le sbarre della loro prigione; quando
vedo turbe di selvaggi nudi spregiare i piaceri europei e sfidare la
fame, il fuoco, il ferro e la morte pur di conservare soltanto la loro
indipendenza, sento che non spetta a schiavi il parlare di libertà. (J.J. Rousseau –  Origine della Disueguaglianza tra gli Uomini)
La libertà in fondo spaventa, inquieta. Non è da tutti il saper convivere con l'incertezza e l'assenza di punti di riferimento. I confini dell'ovile, la compagnia del gregge, offrono sicurezza e certezze a cui è difficile rinunciare. 
È una cosa monotona il genere
umano. I più impiegano la maggior parte del tempo per vivere, e quel
poco di libertà che rimane loro li spaventa a tal punto, da indurli a
cercare tutti i mezzi per sbarazzarsene. Ah, la sorte dell’uomo!
(Goethe – I Dolori del Giovane Werther)
Puoi avere la pace. Oppure puoi avere la libertà. Non sperare di averle entrambe.
R.A.Heinlein
E allora la domanda che Il Mondo Nuovo di Huxley pone a tutti noi è la seguente: è preferibile una felice schiavitù a una dolorosa libertà? Meglio una dolce schiavitù oppure un'amara libertà?
La riposta è probabilmente individuale e si presta a molteplici sfumature. Io non posso rispondere per me e neppure per voi. E in ogni caso il mio compito non è darvi risposte, ma farmi domande e invitare voi a fare lo stesso. Per fortuna possiamo ancora essere artefici del nostro destino e scegliere come impiegare il tempo a nostra disposizione. Ognuno di noi sceglie chi essere. Purtroppo... o per fortuna.


Ecco, questo è il messaggio che vorrei esortarvi a fare vostro: non accontentatevi mai! Non ci sono verità con la "v" maiuscola. C'è soltanto la curiosità umana di esplorare il mondo, perciò non fatevi fermare: siate inquieti! Dipende da voi il futuro del paese e della cultura italiana. Dipende da voi , ed è anche il vostro futuro. Vi auguro più che buona fortuna. (dall'ultima lezione di Enrico Bellone)


Sì, forse è soltanto una beffa colossale, senza scopo. Ma ti posso dire questo, qualunque sia la risposta finale: ecco davanti a te una scimmia che ha cominciato ad arrampicarsi, e continuerà a farlo, a guardarsi intorno per vedere tutto il possibile, finché l'albero la sosterrà.  
(Robert Anson Heinlein, I Figli di Matusalemme)



L’Universo, com’è già stato notato in altre sedi, è un posto maledettamente grande, cosa che, per amore di un’esistenza quieta, la maggior parte della gente finge di non sapere.
Molti sarebbero anzi pronti a trasferirsi in luoghi ancora più piccoli di quelli che riescono a concepire con la mente, e di fatto non sono poche le creature che lo fanno.
In un angolo del Braccio Orientale della Galassia si trova il grande pianeta di foreste Oglaroon, la cui popolazione «intelligente» vive tutta quanta su un unico noce abbastanza piccolo e affollato. Su tale albero gli Oglarooniani nascono, crescono, fanno l’amore, scrivono intagliando la corteccia articoli filosofici riguardanti il significato della vita, l’inutilità della morte e l’importanza del controllo delle nascite, combattono alcune guerre di minima entità, e infine muoiono legati alla parte di sotto dei rami più esterni e inaccessibili. Gli unici Oglarooniani che lasciano il loro albero sono quelli che vengono sbattuti fuori per avere commesso il crimine nefando di chiedersi se qualche altro albero potesse ospitare la vita o se gli altri alberi fossero comunque qualcosa di diverso da semplici allucinazioni prodotte dall’avere mangiato troppe oglanoci.
Benché un simile comportamento possa sembrare strano, non c’è forma di vita nella Galassia che non si sia resa colpevole in qualche modo dello stesso errore, ed è proprio per questo motivo che il Vortice di Prospettiva Totale suscita un orrore indicibile.
Quando infatti si viene messi nel Vortice si ha per un attimo la visione globale di tutta l’infinita, inimmaginabile immensità della creazione, e in mezzo a questa immensità si ha modo di distinguere un segnale minimo, minuscolo, microscopico, che dice Tu sei qui.
(Ristorante al Termine dell’Universo – Douglas N. Adams)


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